KARATE E ARTI MARZIALI TRA TRADIZIONE E MODERNITA’, TRA JUTSU E DŌ

di Lucio Maurino

Le arti marziali giapponesi hanno esercitato una grande influenza sulla cultura giapponese nel corso dei settecento anni del governo feudale. Dal “Periodo Muromachi” (1392-1573), e all’ ‘”Epoca dei paesi combattenti” (1482-1558), in particolar modo, i “bushi” (guerrieri) ricevevano una formazione molto intensa, che al giorno d’oggi sarebbe impensabile riproporre. Inoltre, poiché le arti marziali (Bujutsu) sono direttamente connesse alla vita e alla morte, essi si addentrarono anche profondamente nei problemi dello spirito, e, attraverso gli insegnamenti e le pratiche ascetiche dello Shintoismo, del Buddismo, del Confucianesimo, di Chuang-tse e Lao-tse, innalzarono ai massimi livelli queste “Vie“.

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Quando ci si riferisce alle arti marziali giapponesi antecedenti l’era Meiji (1868), oppure all’editto Haitōrei del 1876 (editto imperiale che vietava di portare in pubblico le spade), si utilizza il termine  Koryū (古流), che significa scuola antica (o anche tradizionale). Lo scopo primario delle Koryu (cioè delle scuole di arti marziali antiche/tradizionali) era quello del loro impiego in guerra (di fatto sono arti marziali intese come Jutsu, nel senso di metodo, tecnica, arte). Un esempio di Koryu è quello riferito ad una scuola generica che preserva inalterata la propria pratica marziale tradizionale (o antica) anche in assenza di conflitti (di fatto contesti dove venivano effettivamente testate l’efficacia delle tecniche e delle tattiche). Ci sono poi delle Koryu che hanno introdotto modifiche al loro metodo di pratica in relazione ad una forma di aggiornamento temporale.

Quando terminò l’ “Epoca dei paesi combattenti”, nella tarda “Epoca Edo” in cui regnò la pace, venne stabilito il sistema feudale. In quel periodo si creò una distinzione fra le pratiche marziali usate nel combattimento vero e proprio e le pratiche marziali connesse con il codice di formazione del “Bushidō“, che enfatizzava lo spirito di lealtà, cui venne data una grande importanza. Poiché nel “Periodo Showa” (1925-1988) queste ultime furono utilizzate per rafforzare e diffondere lo spirito di patriottismo e anche a causa del fatto che ciò ebbe un forte impatto fra la gente, ancora oggi sono in molti a credere che lo spirito del “Budō” (o anche Gendai Budō 現代武道), corrisponda all’idealismo confuciano. Questa è la via dell’etica (morale) sociale che si creò per soddisfare le esigenze di quei tempi ed è generalmente chiamata la “Via dell’Etica” (Shinkaku no Michi).

Infatti, con il termine Gendai Budō, letteralmente “Via marziale moderna”, si definiscono le arti che furono fondate dopo il 1868, il cui scopo era focalizzato non più sulle tecniche di combattimento corpo a corpo da utilizzare in guerra, bensì all’auto-miglioramento (psicofisico e spirituale) dell’individuo che le praticava, con diversi livelli di enfasi circa le possibili applicazioni pratiche (da arte per la difesa personale a sport).

La parola Budō è composta da due kanji, Bu (武) e Dō (道). Bu significa marziale o guerra, e Dō (o anche Michi) significa Percorso o Via. In cinese, il carattere Dō (pronunciato “Tao“) è molto meno tangibile, dato che non significa soltanto Via. Tao esprime anche una visione olistica del mondo ed un’idea di completa unità. I giapponesi hanno adattato la parola Dō a finalità più pratiche. Quando la usano come suffisso per descrivere un’attività, non necessariamente marziale, come il Chadō (茶道), Via della preparazione del tè, ad esempio, Dō rappresenta la conoscenza in una data disciplina. Per quel che riguarda gli esseri umani, Dō è la via dell’autorealizzazione e dell’armonia con l’universo. Riguardo il prefisso Bu, possiamo quindi assumere che questa autorealizzazione sarà raggiunta attraverso lo studio e la pratica di una disciplina marziale.

Il problema per gli occidentali è che entrambi i termini Budō e Bujutsu sono stati tradotti sempre come Arte Marziale. Sebbene chiaramente evoluto allo scopo di adattarsi alle moderne condizioni sociali, politiche ed etiche, nonché ad un diverso approccio pedagogico, il Budō (o Gendai Budō) deriva più o meno direttamente dal Bujutsu (o Koryu Bujutsu = arte marziale antica/tradizionale), che in realtà è l’ancestrale disciplina del combattimento: puramente pratica, diretta e mortale.

E’ dunque importante avere ben chiaro che la nozione di difesa personale è intrinseca nel Bujutsu. Il carattere Bu è in realtà composto da due parole: lancia e interruzione. Quindi il Bujutsu è più che altro un metodo per difendersi piuttosto che attaccare un altro uomo. Inoltre i praticanti di Bujutsu ricevevano anche insegnamenti morali, ma venivano da studi separati di Confucianesimo e altre filosofie. La filosofia non faceva certo parte, a quel tempo, dell’educazione marziale.

E’ necessario, quindi, abbattere il mito del Budō “tradizionale“. Tutti i Budō sono stati creati tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, non c’è nulla di veramente tradizionale nel praticare un Budō, tutti i Budō furono creati dopo che divenne chiaro che le discipline marziali tradizionali dovevano cambiare se volevano sopravvivere. A quel tempo, il Bujutsu non era più pertinente in senso pratico, a causa dei progressi sociali e tecnologici, così come delle pressioni politiche. Dallo smantellamento della classe guerriera durante la restaurazione Meiji fino agli anni del dopoguerra, quando le discipline di combattimento erano proprio proibite, per le arti marziali è stata davvero dura trovare una giustificazione per la loro esistenza. Alcuni visionari invece pensarono che il valore educativo della pratica di un’arte marziale non doveva andare perso e crearono quindi il Budō a partire dal Bujutsu. Studiando gli scritti dei fondatori dei Budō più importanti, Jigoro Kano (Judō), Morihei Ueshiba (Aikidō) e Gichin Funakoshi (Karatedō), restano pochi dubbi riguardo il vero scopo per cui sono state create queste discipline.

Sebbene il termine Budō sia alquanto recente, il processo di demilitarizzazione della società giapponese e l’indebolimento delle tecniche marziali sono molto più recenti. Probabilmente tutto era cominciato a partire dal sedicesimo secolo, quando lo shogunato dal pugno di ferro dei Tokugawa prese il potere in Giappone e mise fine a secoli di costante guerra civile. I Bushi (guerrieri) divennero samurai (servitori civili) e le tecniche che una volta si usavano in combattimento vennero ridefinite e semplificate per un uso più rado e principalmente urbano. In realtà l’ideologia del Bushidō (Via del guerriero), prese forse piede dal fatto che il samurai non aveva molto da fare (niente più guerre da combattere) ed un sacco di tempo da ammazzare (il loro grado non gli permetteva di esercitare altre professioni). Quindi riuscivano a vivere più a lungo non venendo uccisi in guerra nel fiore degli anni, e probabilmente divennero anche più saggi con l’età. Di conseguenza, si sforzavano di giustificare le loro capacità, oramai inutili, associandole ad una filosofia di vita e ad attributi morali. E’ interessante notare che la parola Bushidō è una invenzione molto recente, sebbene la sua filosofia sia stata sviluppata e glorificata per lungo tempo negli scritti di autori come Tsunetomo o Musashi, tra i più influenti.

In riferimento al valore intrinseco del Dō, il 1868 può apparire troppo avanti nel tempo, dato che il processo di pacificazione portato e imposto dallo shogunato Tokugawa ha garantito al Giappone ed ai suoi Feudatari oltre 200 anni di pace e stabilità, sino alla restaurazione Meiji. Quindi, ciò che porta al concetto filosofico di Dō, in una valenza marziale, vede la luce prima dell’era Tokugawa, in quanto necessità di sopravvivenza dell’arte, dando uno spazio importante anche all’estetica, alla gestualità individuale come viatico filosofico per conseguire un miglioramento interiore.

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Ora che comprendiamo le origini del Budō, possiamo cominciare ad afferrare cosa significhi oggi. Al contrario di ciò che molta gente crede, il Budō non è un sistema di autodifesa ma è un sistema educativo. Il Budō-ka (praticante di Budō) impara i valori morali del rispetto, della pace, dell’umiltà, ecc. attraverso il perfezionamento di una coreografia marziale. Quindi è molto importante capire che l’efficacia non è l’obiettivo primario di studio nel Budō. Infatti, in molti casi, l’efficienza della tecnica è stata volontariamente diminuita per ridurre il rischio di danni fisici durante gli allenamenti e per aumentare i benefici su mente e corpo. Ad esempio, le tecniche di Budō sono spesso usate per “aprire” il corpo del praticante, mentre approcci più antichi e pratici portavano a posture più “chiuse” o compatte. I vantaggi del Bujutsu servono alla sopravvivenza, mentre i benefici del Budō sono per la vita.

Inoltre, è bene ricordare che le tecniche insegnate nel Budō sono pur sempre delle tecniche marziali ad hanno conservato un loro grado di efficacia. Alcune scuole di Budō sono anche focalizzate sull’efficacia maggiormente di altre e non sarebbe ragionevole dire che tutti i Budō non sono efficaci in combattimento.

Tuttavia è inutile comparare un Budō ad un’altra arte marziale in termini di efficacia marziale. L’efficacia non è la priorità di una pratica di Budō più che trentennale. Se qualcuno volesse imparare qualcosa di principalmente pratico, che sia un sistema di combattimento efficace o uno di autodifesa, può rivolgersi al Koryu Bujutsu (se si vuole rimanere nell’ambito delle discipline giapponesi).

Da notare comunque che se i Budō non sono tecniche di combattimento, essi non sono neanche degli sport. Le arti marziali non cessano mai di evolvere ed i Budō che oggi si evolvono verso discipline da competizione (Shiai) sono dette Kakutogi. Sfortunatamente, i benefici di miglioramento personale intrinseci dell’arte da cui provengono vengono spesso persi strada facendo.

Tra i Budō più importanti, relativi alla Shinkaku no Michi (Via dei principi etici e morali – morale confuciana) abbiamo il Judo (柔道), il Kendo (剣道), lo Iaidō (居合道), il Kyūdō (弓道), il Karatedō (空手道), il Naginata (なぎなた-薙刀道), lo Shorinji Kempō (少林寺拳法), dove Pō assume la sinonimia di Dō (Pō, infatti, è la lettura del carattere “Hō”, che si trova in molti termini religiosi, come per esempio “Buppō” che tradotto significa “la legge di Budda”). La parola Nin-Pō usa quindi il termine “Ho” poiché quest’arte marziale ha profondi significati religiosi. Nel Ken-Pō, infatti, si combinano due parti: Arte Marziale (Bumon) e Spiritualità (Shumon), ed è possedendo entrambe queste qualità che si arriva ad avere un corpo ed una mente armoniosamente equilibrati. Quindi “Dō” come perseguimento della Via, concetto importantissimo nelle arti di combattimento e di confronto fisico, ma anche nella vita di ogni giorno, e “Ho/Pō” come eterna verità, nell’antico linguaggio indiano, non solo nel perseguire una Via ma anche per andare oltre la via stessa. Questo non significa che il termine in questione ricopra maggiore importanza rispetto a tutte quelle discipline che invece perseguono la Via classica, ma cerca solo di distinguersi da esse e andare non solo alla ricerca della Via stessa, ma anche, e soprattutto, di entrare in quell’eterno circolo di vita che la natura ci insegna tutti i giorni.

L’Aikidō (合氣道), invece, ha una classificazione a parte legata alla Shinpo no Michi (Via dei Principi Spirituali), un sistema derivato dai metodi di pratica dello Shintoismo, del Buddismo esoterico (Mikkyo), dello Zen, del Taosismo e degli insegnamenti di Chuang Tse, e rappresenta la “Via” che ha unificato (sintesi) la filosofia pratica (applicata) orientale dell’ ”unione mente-corpo” e le arti marziali (Bujutsu). Questa via indica come condurre ed utilizzare la propria vita basandosi sulla concezione (visione) orientale del mondo e dell’esistenza, è la via che “scorre in fondo al cuore” e che ancor oggi sostiene la visione dell’universo e dell’esistenza dei giapponesi.

Per quanto finora riportato, per lo meno in Giappone, la distinzione tra Tradizionale (o Antico) e Moderno ha dei punti di riferimento più definiti e legati più alla loro temporalità epocale che non alla singola e specifica arte marziale a seconda di dove la geografia ci dice si sia evoluta. Certo tutti gli stili di Karate giapponesi, a questo punto, sono de facto moderni ed il suffisso tradizionale, usato da alcuni, è improprio ed incongruente, anche perché tali tipologie nascono anche con finalità sportive. Sicuramente Tode/Te/Uchinadi ecc… sono tradizionali/antichi, sia che si prenda a riferimento il 1868, il 1876, o anche il periodo Edo nella sua globalità e non certo perché provenienti da Okinawa e non da un altro distretto giapponese.

Tuttavia, nonostante questo metodo, attraverso cui si utilizzano le date e quindi i periodi storico-politici che il Giappone ha vissuto, sia equo e significativo per distinguere il tradizionale dal moderno, è meglio utilizzare una classificazione riferita all’etimologia italiana per intendere la diversità tra tradizionale e moderno.

Infatti, tradizionale è un termine che si riferisce a ‘tradizione‘, documentato per la prima volta nel 1598 ed è derivato per via dotta dal latino ‘traditione(m)’ che è a sua volta un derivato dal verbo ‘tradere’, il cui significato di base è ‘consegnare oltre‘(tra + dare). L’accezione originaria della voce è quindi ‘consegna/affidamento‘, cioè ‘trasmissione ininterrotta alla posterità di memorie storiche, dottrine, usanze, costumi, leggende passate di generazione in generazione e da epoca a epoca per via orale, senza prove certe’.

In ogni caso il concetto di ‘tradizione’ è fondamentalmente legato alla trasmissione e consegna alle nuove generazioni di credenze o usanze che si ripropongano ininterrottamente e sulla base di una condivisione diffusa. La ‘tradizione‘ vive soltanto se trasmessa ininterrottamente e immutabilmente attraverso canali comunitari condivisi. Quindi si tratta di trasmettere, in maniera inalterata e non personalizzata, qualche cosa di pregresso a nuove generazioni.

Ricordando questi concetti, potremmo dare ai termini “tradizionale/antico” una definizione di tipico: ‘tipico‘ è una parola tutt’altro che “tipica” nella lingua italiana, dove col significato di “appartenente a un tipo, a una persona o a una cosa” oppure “conforme a un tipo, che ne condivide le caratteristiche”, dal greco typos ‘impronta‘, che riprende il verbo ‘typtein’ che significa ‘battere’ e anche ‘lasciare un segno, un’impronta’. Quindi è tipico “ciò che riflette, riproducendolo esattamente, un certo modello che nel tempo può anche subire aggiornamenti marginali, dovuti all’evoluzione, senza mai variare il suo significato genuino” il Karate tradizionale o antico, appunto !”.

I Saggi giapponesi (maestri non solo di arti marziali), per far intuire meglio questo concetto, portano come esempio quello di far immaginare all’allievo una montagna: il termine “Jutsu” potrebbe indicarci “come” si sale sulla montagna, il termine “” potrebbe indicarci il “modo migliore” per raggiungere la cima di quest’ultima, mentre il termine “Ho/Pō” potremmo identificarlo come “una nuvola che fluttua in cielo sopra la montagna, che scende su di essa sotto forma di pioggia, che scorre attraverso essa fino a divenire da prima ruscello, poi fiume fino ad arrivare in mare e da qui ancora nuvola pronta a ricominciare questo eterno ciclo di vita”.

Il carattere cinese usato per “Ho” è composto da due radici, la prima “Sanzui” significa “acqua“, la seconda “Saru” significa “andare avanti“, se uniamo i due termini otterremo “andare avanti nell’acqua” e se ad esso pensiamo come l’eterno ciclo, prima esposto come esempio, ecco che tutto ci torna più chiaro. Vi è però da dire che il termine “Ho”, nonostante sia scritto con il radicale di acqua ed il carattere di avanzare, non ne prende il significato letterale ma è un’evoluzione ideogrammatica cinese sul termine sanscrito di “ruota” utilizzato per descrivere la legge “dharmica” introdotta dal Buddhismo; così come il carattere Dō, nonostante sia partito dal concetto taoista, è finito, in Giappone, per rappresentare la ricerca interiore verso l’illuminazione, nel concetto Buddhista del termine.

Bumon” e “Shumon”, il vangelo marziale si unisce indissolubilmente a quello religioso. Vivere una vita come un praticante (“-Ka”) vuol dire “desiderare niente, apparire niente, essere niente”. Questo è il punto più sicuro: diventare uno “zero”, come l’ “en”, il cerchio. Ma due cerchi, uno affianco all’arto, significano anche infinito, ecco allora che dallo zero nasce ogni cosa.

FONTI BIBLIOGRAFICHE

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  21. Armstrong, Hunter B. (1995) The Koryu Bujutsu Experience in Koryu Bujutsu – Classical Warrior Traditions of Japan. New Jersey: Koryu Books. Page 20;
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L’INFLUENZA DELLA CULTURA GIAPPONESE NELLE ARTI MARZIALI

di Marco Forti – pubblicato su Karateka.it
Lo sviluppo della cultura giapponese è stato fortemente influenzato dalla scarsa disponibilità di superficie rispetto alla densità della popolazione e dall’isolamento geografico che, nel corso dei secoli, ha permesso di mantenere inalterati i valori originari della civiltà feudale.
出る釘は打たれる (deru kugi wa utareru)
Il chiodo che sporge va ribattuto
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La cultura giapponese si è evoluta esaltando l’ordine, l’importanza della gerarchia e dell’etichetta, l’unità e la legalità.

Il giapponese considera l’autorità necessaria alla sopravvivenza della società e l’ubbidienza all’autorità come una forma di cooperazione piuttosto che di coercizione. Il benessere del gruppo viene considerato più importante di quello del singolo.

Conformità sociale, gerarchia e dinamica del gruppo

L’antropologa giapponese Chie Nakane, afferma «Il Giappone moderno ha una struttura gerarchica che segue una stratificazione verticale in base alle istituzioni, piuttosto che orizzontale in base alle classi o alle caste. L’individuo giapponese non ha uno status individuale universalmente valido nella società, ma la sua identità è determinata esclusivamente dal ruolo che assume in una particolare istituzione.
Non bisogna confondere la gerarchia giapponese con quella occidentale, come se fossero equivalenti i rapporti di forza e le strutture sociali: il fine ultimo della gerarchia giapponese è la costituzione del gruppo. Gruppo, che può essere di lavoro, di studio o familiare.»(1)

Malgrado la sua modernizzazione, il Giappone rimane comunque una società gerarchica in cui tutto è regolato da convenzioni e norme meticolose.

Gli antichi guerrieri vivevano per la lealtà, la disciplina, l’obbedienza alla nazione al clan, alla famiglia e all’onore personale. Le forme oggi sono cambiate, ma le qualità del popolo giapponese sono rimaste invariate, così come le tradizioni, che sono vive perché condizionano inequivocabilmente un presente, che a sua volta le ridefinisce e rafforza.

Tradizione e modernizzazione non sono in Giappone in contrasto, ma due facce della medesima medaglia. Il sistema giapponese ha realizzato una completa integrazione fra modernizzazione e tradizione sfruttando le caratteristiche culturali a vantaggio dello sviluppo e dell’organizzazione.

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Nella cultura giapponese esiste una forma d’ordine, a cui gli occidentali non sono abituati, in cui è vero che l’individuo è vulnerabile e l’individualità non viene incentivata, ma esiste una sensibilità comune che dà l’impressione di avere a che fare con una sorta di persona collettiva.

La gerarchia non ha quindi lo scopo di proclamare la supremazia di un individuo sugli altri, ma quella di stabilire i doveri all’interno del gruppo, in cui il valore dominante è l’armonia, che si manifesta nella gratitudine e lealtà, nei sentimenti di benevolenza e di comprensione del capo nei confronti dei suoi subordinati.

Esistono rapporti importanti che comportano differenze di età fra le persone coinvolte: quelli tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra superiori e subordinati, che divengono un modello per le altre relazioni interpersonali.

In Occidente, le differenze di età e di stato non influenzano i rapporti tra le persone come avviene in Giappone.

Gli studenti possono parlare con i professori in modo molto informale. Una matricola e un anziano in un college possono essere buoni amici. I giovani e agli anziani possono avere un rapporto paritetico.

In Giappone, quando i giapponesi si riuniscono, il loro comportamento è fortemente influenzato dalla consapevolezza del livello e del grado di ogni persona del gruppo in accordo con l’età e lo stato sociale.

La consapevolezza delle differenze di età e di rango è inoltre una necessità costante per l’uso appropriato della lingua giapponese. Un giapponese deve infatti parlare con un anziano usando un vocabolario e una forma linguistica più educati, usando cioè il linguaggio formale che in giapponese è chiamato Keigo.

Il rapporto Senpai-Kohai

Niente descrive più chiaramente questo aspetto della tradizione e della natura gerarchica della società giapponese che il rapporto tra Senpai(l’anziano o il superiore) e Kohai (più giovane) in qualsiasi organizzazione sociale.
L’atteggiamento verso il proprio Senpai è caratterizzato da formalismo, obbedienza e fiducia.

Il rapporto tra inferiori o Kohai e i loro Senpai segue le rigide regole imposte dall’etichetta, manifesta il rispetto della gerarchia e quindi l’adesione alla struttura sociale(2).

Secondo la cultura giapponese, l’accettazione di altri come propri superiori è uno strumento utile per insegnare la leadership, l’autocontrollo e l’autodisciplina.

Il rischio è che questa consuetudine possa inibire lo sviluppo personale: quando gli individui smettono di pensare con la loro testa e lasciano le decisioni ai loro superiori, possono diventarne dipendenti e interrompere il percorso che porta alla maturità, ma questo fa parte delle regole del gioco.

Nell’interpretare questo rapporto è importante tener presente la sua confrontabilità con la famiglia che rappresenta il pilastro della società giapponese in quando propone e rispecchia le norme, i valori culturali, le tradizioni e il pensiero comune.

All’interno della famiglia giapponese i bambini sono molto amati e viziati, le oba-san e gli oji-san (nonne e nonni) di solito occupano un posto speciale e godono di grande considerazione: l’inizio e la fine della vita sono considerati vicini al mondo spirituale e quindi degni di un rispetto maggiore. La dipendenza del più giovane, del più fragile della famiglia non solo è accettata, ma diventa il punto focale della relazione, in cui si esprimono i valori di coesione e di unità, e si consolidano i ruoli all’interno del gruppo.

I sentimenti di affetto e la gerarchia propri delle relazioni familiari, invece che entrare in contraddizione, si rafforzano vicendevolmente, affermando gli ideali di ordine e armonia.

Nella famiglia nascono e si sviluppano i valori fondamentali di tutte le relazioni interpersonali e il codice di comportamento che ne deriva consente di rendere simili e comparabili situazioni sostanzialmente dissimili, come l’ambiente famigliare, la scuola e il mondo del lavoro.

L’affermazione: «I Senpai sono come padri protettivi, come fratelli maggiori» indica proprio come la relazione Senpai-Kohai abbia profonde analogie con la relazione esistente all’interno della famiglia fra i genitori e i figli o fra il fratello maggiore e quelli più giovani.

Il rapporto senpai kohai nelle scuole

Il rapporto senpai kohai inizia nelle scuole

Gli studenti giapponesi incontrano il loro primo Senpai nella scuola media, quando si iscrivono a qualche circolo, sportivo o culturale, e questo rapporto durerà anche dopo il loro diploma.

I nuovi studenti sono addestrati, come dei soldati, a servire il loro Senpai. Quando parlano con il loro Senpai devono usare un linguaggio educato e formale per mostrare rispetto verso l’anziano.

Quando incontrano il loro Senpai devono inchinarsi.

Chiamare gli anziani per nome è proibito.

In questo rapporto molto rigido e formale, simile al sistema gerarchico dell’esercito, l’obbedienza è il valore più importante del Kohai.

Questa relazione si ripropone anche nel mondo del lavoro.

La relazione senpai-kohai si ripropone anche nel mondo del lavoro

Come già detto nella cultura giapponese è cruciale sapere in anticipo chi è più anziano e chi è più giovane in qualsiasi relazione personale, in modo tale da usare, nei confronti dell’anziano, il giusto tono di voce, l’appropriato livello di formalismo e di termini onorifici.

Per questo motivo nessun rapporto d’affari può cominciare prima di essersi scambiati i biglietti da visita (Meishi), che contengono informazioni molto precise e dettagliate sul rango e sulla posizione aziendale, in modo da aver chiaro chi deve portar riguardo a chi.

Le più recenti ed autorevoli analisi sulla moderna organizzazione giapponese conferiscono un posto determinante al rapporto Senpai-Kohai, che è considerato cruciale per comprendere le caratteristiche tipicamente giapponesi della loro struttura aziendale.

La relazione Senpai-Kohai è riproposta ed enfatizzata nel Budo giapponese.

Il Rei, ossia “il saluto” e quindi l’inchino come sua forma esteriore (Tatemae) e il rispetto come forma interiore (Honne), riunisce le nozioni di educazione, cortesia, gerarchia, lealtà e gratitudine.

Non per niente i termini, che in giapponese indicano l’etichetta (Reishiki / Reigi), derivano direttamente da Rei e in questa particolare accezione, l’etichetta non è solo l’espressione del mutuo rispetto all’interno della società, ma un mezzo per prendere coscienza della propria posizione e avvicinarsi alla comprensione del Budo.

Come nella famiglia c’è una gerarchia naturale, così è nel Budo: maestro e allievo, Senpai, Dohai e Kohai, gradi avanzati e principianti, e tutte queste relazioni devono agire in modo congiunto, per preservare l’ordine e l’armonia nel gruppo.

L’etichetta consiste nel determinare caso per caso il giusto equilibrio.

Per un giapponese che pratica in un dojo, adeguarsi a queste norme è facile, non ha che da replicare le regole di comportamento, che già applica, sotto altra forma nella sua vita sociale.

Per un occidentale è più difficile. L’informalità, che caratterizza i nostri rapporti quotidiani, mal si coniuga con le rigide norme dell’etichetta, di cui fatichiamo ad elaborarne i contenuti.

Le relazioni Sensei-Deshi e Senpai-Kohai, così diffuse e naturali nella società giapponese, sono per l’occidentale, anche se praticante di arti marziali, di difficile comprensione ed attuazione.

Eppure è così semplice: “Il Senpai si prende cura del Kohai, perché occupa il posto che è suo e merita perciò che ci si occupi di lui.” Allo stesso modo il rispetto verso il Senpai non deve essere richiesto o imposto, il Kohai “deve avere il desiderio naturale di rispettare il Senpai.

Così in Giappone l’allievo non fa domande al maestro, accetta l’insegnamento perché il Sensei ne sa di più, ha maggior esperienza, inoltre fare domande è considerato scortese e potenzialmente distruttivo dell’armonia del gruppo.

Forse è proprio questa semplicità, questa naturalezza, questa forma di ordine gerarchico per noi atipica, questa certezza che non ammette replica, che ostacola la capacità di capire …

Ma in fondo cosa c’è da capire … basta accettare.

Ed è di questa impostazione culturale, tutta giapponese, che il Karate-do moderno è figlio.

Ed è forse anche a causa di questa impostazione culturale che impone il non fare domande ai propri maestri che buona parte delle conoscenze e delle pratiche dell’antica arte di Okinawa si sono perse per sempre nelle sabbie del tempo …

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NOTE

(1) Chie Nakane – Personal Relations in a Vertical Society: A theory of Homogeneous Society – Kodansha – Tokyo 1967
(2) Patrizia Corgiat Mecio – La relazione Senpai-Kohai nella cultura giapponese – 2001